Archivio mensile:aprile 2011

Scappo dalla città? L’Ikea, la Lidl e il brunch di via Zamboni

Ve lo ricordate il film “Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche”?

Billy Crystal e altri due amici, stanchi della loro vita si improvvisano cowboy nel west. Gli americani quando sentono di essere saturi della vita frenetica in città possono sempre giocarsi la carta del vecchio west con i suoi campi sterminati e le sue mandrie di mucche da far pascolare, con tanto di cappello alla J.R. Ewing di Dallas. Anche noi italiani nel nostro piccolo abbiamo le nostre valvole di sfogo:

La campagna. Ne abbiamo da vendere, anche se in alcune parti d’Italia ha più le sembianze di palude sotto il livello del mare. Incontro praticamente tutti i giorni qualcuno che mi dice di essere stressato a tal punto da voler mollare tutto per andare ad acquistare una di quelle abitazioni da mezzadro nel bel mezzo del nulla cosmico, dove il tuo vicino in realtà è il tuo “lontano” in quanto abita a non meno di quattro chilometri da te.

La collina. Meta turistica privilegiata dagli over 65, ultimamente sta conquistando un notevole successo anche tra i giovani, in particolare le giovani famiglie intenzionate a “far respirare aria buona al loro bambino”. Posso affermare con una certa convinzione che almeno il cinquanta per cento della popolazione italiana possiede una sottospecie di baita di montagna che ha dignità di essere chiamata tale per il solo fatto di avere il soffitto con le travi a vista e il camino. Che poi si trovi sul Monte Bianco o al Corno alle Scale questo non ha nessuna importanza.

Il mare. Beh, grazie a Lui gli italiani lo vedono praticamente sempre, anche sul treno Milano-Ancona. La casa al mare è un must, soprattutto per chi non svolge un lavoro d’ufficio e che ha quindi la possibilità di recarsi nella propria abitazione marittima per lavorare in santa pace. E’ un trend molto hemingwayano che però la maggior parte delle volte è un capro espiatorio per giustificare tutti questi affitti stagionali che stanno crescendo a dismisura. Il mare piace a tutti, non ha nè età nè sesso, “perchè il pesce mangiato al mare è tutta un’altra cosa”. Vale sempre la pena svegliarsi alle sette la domenica mattina, mettersi in coda sull’autostrada A14 per trascorrere una giornata a rosolarsi sulla spiaggia. Anche se si tratta dei lidi ferraresi.

Il canonico esodo prevede quindi una fuga in massa dalle metropoli per trovare ristoro in luoghi più o meno esotici ma sempre e comunque dimenticati dal Signore. La città opprime, provoca stress, fagocita, produce smog, acari e tutto ciò che non possa essere eliminato semplicemente con un marchingegno acquistato su Media Shopping. La città è sinonimo di lavoro, di capi isterici, di vessazioni gratuite, di asfalto e di clacson forsennati. La città odora di kebab, mc chicken, pizza di Spizzico, sushi, pita gyros e altri e ignoti cibi etnici. La città puzza, anche perchè avete mai provato a mescolare insieme l’odore provocato da un kebab, un mc chicken, una pizza di Spizzico, un sushi e un pita gyros? La città è il senegalese che vende gli accendini, il pakistano che vende le rose, il rom che non vende niente ma chiede denaro ugualmente. E’ un cinese in bicicletta, uno studente in motorino, una massaia sull’autobus e un anziano vicino ad un cantiere.

Nonostante tutto, io la adoro.

Amo la città per tutte queste cose messe assieme, per il tanfo di cibo e asfalto, per tutti coloro che mi vengono a chiedere delle monete, per il rumore, per le voci, per i passi, lenti e veloci. Per gli universitari che chiedono lo sconto al cinema, per gli autobus talmente affollati che bisogna sempre aspettare quello successivo. E per il cemento, tanto, tantissimo cemento. A volte ho bisogno della città, sento la mancanza della grande metropoli, ma soprattutto sento la mancanza di andare all’estero, anche solo per sentire parlare una lingua diversa dalla nostra o per vedere come fanno la spesa nel resto del mondo. E allora, ecco le mie personalissime valvole di sfogo:

L’Ikea. In realtà non tutta l’Ikea mi fa sentire all’estero, anche se tutte quelle proposte di arredamento a incastro mi fanno sempre pensare a una famiglia svedese di otto persone che vive in trenta metri quadrati assieme anche al cane  e ai due gatti semplicemente mettendo a castello la lavatrice, la lavastoviglie e il forno a microonde e dormendo a turno in tre letti a ponte. Ma comunque, la vera parte metropolitana è l’Ikea Food, la zona gastronomica dove è possibile comprare salmone affumicato e biscotti allo zenzero come se fosse sempre Natale. Tutti quegli alimenti biologicamente scandinavi, tutte quelle scritte in svedese sono una vera boccata d’aria fresca, che immediatamente mi fa dimenticare di essere in realtà all’uscita dell’autostrada Rimini Nord.

La Lidl. E’ decisamente più a portata di mano dell’Ikea, dove comunque finisci sempre per passarci un’intera giornata. Alla Lidl puoi anche solo farci un giro una volta al giorno, anche solo mezz’ora, perchè abbia il suo effetto benefico. In particolare, ogni quindici giorni l’offerta è dedicata ad una serie di prodotti di diversi Paesi esteri: vi posso assicurare che poter acquistare una confezione di biscotti scozzesi oppure una di noodles o anche una di bagels americani non ha prezzo.

Il brunch in via Zamboni. Letteralmente, il brunch non è altro che un breakfast e un lunch assieme; cioè, è un modo per non dover scegliere tra fare colazione o pranzare se ci si sveglia tardi. Estremamente diffuso nei paesi anglosassoni, in Italia non ha avuto grande successo a parte nelle grandi città. Nei miei due mesi di vita trascorsi a Boston era entrato ormai a far parte della mia quotidianità. Un giorno per caso stavo passeggiando per il centro di Bologna quando improvvisamente un cartello davanti al Caffè Zamboni ha attirato la mia attenzione. “Sabato e domenica brunch dalle 10 alle 14”.

Grazie.

Antologia di una “pausa di riflessione” e altre invenzioni simili

C’eravamo tanto amati?

"La guerra dei Roses"

Chi lo sa, ma chiudere una storia d’amore passando attraverso una fantomatica pausa di riflessione è come prendere la rincorsa al salto in alto: sai già come andrà a finire, è solo questione di tempo.  Gli uomini si giocano la carta della pausa con la stessa frequenza con cui le donne fingono il mal di testa, tanto da farla entrare ormai negli annali che riportano in maniera gloriosa le più celebri uscite di scena maschili dai tempi di Adamo e della mela, che all’ epoca poteva rappresentare un ottimo escamotage ma che purtroppo nell’era moderna lascia il tempo che trova. Da epoche immemorabili ormai, gli uomini riescono a tirar fuori dal cilindro una serie incredibilmente confusa di spiegazioni sul perchè abbiano deciso di interrompere la loro storia d’amore, tanto da farmi pensare che esista un prontuario, una sorta di libretto di istruzioni del quale entrano in possesso all’età circa di sedici anni, quando inizia per loro un lento e inesorabile declino che li porterà poi a settant’anni a ridursi come il nostro Premier, indiscusso benefattore di giovani sprovvedute possibilmente dal fondoschiena attraente. Eccone un estratto, un elenco di solo alcune delle citazioni più note:

1- Non sei tu, sono io. Si tratta di una delle frasi celebri del repertorio maschile, utilizzata prevalentemente quando non ci sono motivazioni di fondo per far finire una storia, ma semplicemente le serate “a rutto libero” in compagnia degli altri esemplari hanno avuto la meglio sulle noiosissime commedie sentimentali cinematografiche proposte dalle donne. In realtà potrebbe voler dire qualsiasi cosa: non sei tu l’idiota sono io?

2- Tu sei troppo per me, io non ti merito. Questa frase apparentemente, alle orecchie di un cuore infranto, potrebbe apparire estremamente filantropica ed eccessivamente romantica se non fosse che a pronunciarla è uno che ti ha appena calpestato i sentimenti. In verità, altro non è che un modo leggermente più edulcorato per dire: “mi sono reso conto di essere davvero più scemo e ignorante di te, ma siccome mi secca ammetterlo ti pianto per una dal quoziente intellettivo decisamente inferiore. Di conseguenza stare al suo fianco mi farà sembrare Einstein”.

3- Ho bisogno di stare da solo. Questa è la mia preferita, anche perchè nove volte su dieci chi utilizza questa formula di commiato ha già pronta una ruota di scorta che porta due taglie in meno e ha la metà degli anni della fidanzata appena scaricata. Ricordatevi sempre: la prima gallina che canta ha fatto l’uovo, ergo se hanno tutta questa premura nel farvi pensare che non c’è nessun altra nella loro vita, in realtà è esattamente il contrario.

4- Penso che sarebbe più giusto rimanere amici. L’evergreen che non delude mai, il classico dei classici, l’epilogo che tutte noi almeno una volta nella vita ci siamo sentite dire e che almeno una volta nella vita ha fatto sì che ci trasformassimo nell’incredibile Hulk. Rimaniamo amici? E’ come chiedere a qualcuno che stai per buttare in un mare di escrementi umani se vuole tuffarsi di piedi o di testa. E’ in assoluto la frase più crudele che si possa dire perchè dimostra una totale indifferenza verso l’altra persona, è come dire “Non ti amo più ma ti stimo”. Non è possibile rimanere amica di una persona che ti ha spezzato il cuore, è matematico, puoi perdonarlo, dopo tanti anni, anche perchè togliere il saluto ad una persona e mantenere ad oltranza le ostilità aperte è talmente faticoso che la maggior parte delle donne ad un certo punto della propria vita si stanca e decide di passare oltre, concedendo una sottospecie di rapporto civile alla propria ex dolce metà.

Il pensatore di Rodin

E poi c’è la pausa di riflessione, che non è altro che un “antibagno”, la sala di attesa del dentista, un limbo gradevole, fatto di sedie confortevoli e riviste di intrattenimento, ma che non presuppone mai nulla di buono. Se la motivazione è quasi sempre un estremo bisogno di riflettere e di capire quello che si vuole dalla vita, se si è già entrati nello stadio dell’indecisione, se i sentimenti sono già stati ampiamente messi in discussione, perchè prolungare un agonia? Perchè scegliere una morte lenta e dolorosa se si può optare per un colpo secco e via? Tanto il risultato che si vuole ottenere è sempre lo stesso, solo che, ancora una volta, è il coraggio a venir meno, un’incredibile audacia che purtroppo, i maschi del nuovo millennio paiono esserne totalmente sprovvisti. Difficilmente sono venuta a conoscienza di coppie che sono uscite vittoriose da una pausa di riflessione, ma voglio lanciare una sfida, voglio che questo post diventi una specie di tavola rotonda, un piccolo talk show. Sì lo so, mi sto trasformando in un mix tra Nando Pagnoncelli, Caterina Balivo e Platinette.

Scrivetemi, raccontatemi la vostra esperienza, smentite la mia teoria catastrofica sulla pausa di riflessione: sarò felice di cambiare idea, anzi, non vedo l’ora. Se esiste almeno una possibilità su un milione che la mia idea possa essere falsa, fatemelo sapere. Così potrò continuare a sognare.

When the Saints Go Marching In

“Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,

fate tacere il cane con un osso succulento,

chiudete i pianoforti, e tra un rullio smorzato

portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.

Incrocino aeroplani lamentosi lassù

e scrivano sul cielo il messaggio Lui E’ Morto,

allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,

i vigili mettano guanti di tela nera.”

W.H. Auden, Funeral Blues

 

Mi chiamo Naima perchè piaceva a mio padre. E’ uno dei brani simbolo della musica jazz, un po’ come Nel blu dipinto di blu per la musica italiana, o Le feuilles mortes per i francesi. Nessuno però la suona mai, nessuno dei musicisti che sono andata a sentire in tutti questi anni, forse perchè è difficile e hanno tutti paura di sbagliare, o di rovinarla, o per una sorta di rispetto, come se fosse qualcosa di intoccabile, di sacro. Mio padre la musica la viveva così, come se fosse viva, una persona in carne e ossa, una dea da idolatrare. Faceva parte della sua vita ed è stato fortunato, in un certo senso, perchè è riuscito a trasformare una passione in una vera professione che gli ha dato gioie e dolori, ma soprattutto un patrimonio di esperienze, aneddoti, avventure al limite del reale che anche adesso, adesso che non c’è più, vivono in noi, che siamo la sua famiglia e che le abbiamo ascoltate e riascoltate in mille versioni. Come quella volta con i Meteors che appena arrivati a Roma gli sono stati rubati il furgoncino con tutti gli strumenti, davanti all’ Rca, o quando hanno dormito tre giorni consecutivi nella stanza d’albergo a causa dell’annullamento di una data. Le risate con i colleghi orchestrali, P.G. Farina, H. Gualdi, l’amico Marzio “Macho” Vincenzi, autore di innumerevoli scherzi, col quale si è subito instaurato un feeling particolare, dalla sera del concerto di Thelonious Monk.

 

Louis "Satchmo" Armstrong

Mio padre amava fare la musica che piaceva a lui, non per diventare famoso, nemmeno per “andare a maccheroni”, ma perchè la musica era la sua vita. Il jazz esasperato, freddo, troppo cerebrale a volte, ma anche quello caldo, delicato, sussurrato come solo Chet Baker sapeva fare. A qualcuno piace caldo, direbbe Billy Wilder, e a qualcuno, come mio padre, la musica piaceva tutta, quella dei maestri brasiliani, in particolare quella di Antonio Carlos Jobim, di Astrud Gilberto, di Elis Regina e Gilberto Gil, interpreti di brani intrisi di poesia che appartengono alla mia infanzia, e che tante volte, da piccolissima, hanno avuto la funzione di ninna nanna. Per una come me cresciuta con certa musica è difficile, ora, pensare di poter andare avanti senza i suoi insegnamenti, i suoi consigli, la sua ironia, il suo modo di vivere sempre sopra le righe, come in una favola, come se la vita andasse sempre assaporata in ogni suo aspetto, cercando di non perdere nulla di quel buono che potesse offrirgli.

Somigliava ad Adriano Celentano, da giovane, mio padre, ma non ha mai sfruttato questa caratteristica. Avrebbe potuto sfondare, all’epoca, come alter ego del Molleggiato, in una delle sue trasmissioni surreali, ma a lui non interessava la televisione, era troppo terrorizzato di dover abbandonare la sua musica per prediligerne l’aspetto commerciale, più “gettonato”. Con il rock si viveva, all’epoca; gli orchestrali che popolavano la Bologna degli anni ’70, la Bologna degli anni d’oro, suonavano anche tutta sera per un piatto di tortellini. L’importante era suonare, divertirsi, vivere la vita notturna con quel sapore un po’ bohemien, che allora potevano permettersi, da biassanot. Ed ecco che qui, tra la Cantina Bentivoglio e l’Osteria dello Scorpione, sono nate le leggende, i miti, le mirabolanti avventure che il suo amico e collega Jimmy Villotti ha raccontato nei suoi libri ma anche durante le esibizioni dell’ orchestra Ritmica Tangenziale e i suoi Raccordi, una delle sue ultime performance dal vivo. Alcune storie hanno davvero dell’incredibile, forse perchè non riusciamo più ad immaginare che un tempo, anche solo fino a trent’anni fa, si potesse vivere così, in totale spensieratezza, con quella leggerezza tipica di chi si accontentava di poco, di chi non aveva come obiettivo quello di riempire il portafoglio, ma quello di divertire e divertirsi solo con la musica. E così tra un’avventura con I Meteors e un’altra con la Big Baboon Band è arrivato alla fine della sua storia, mio padre, il 3 aprile 2011, un giorno prima di festeggiare 47 anni di matrimonio, o forse all’inizio di un’altra, straordinaria avventura assieme agli amici orchestrali che ci hanno lasciati prima di lui. Forse non ha neanche apprezzato il funerale in chiesa, magari avrebbe preferito una cerimonia all’americana, come a New Orleans, accompagnato da una marching band e un coro gospel. Gli americani hanno swing, mi diceva sempre, anche quando muoiono. Mi piace immaginarlo così, tra i grandi mostri sacri del jazz, mentre prova My Funny Valentine, felice più che mai, col suo Fender mentre parla con Charlie Parker, che finalmente ha potuto incontrare.

Si chiamava Ciro, mio padre. Ciro dei Meteors, come lo conoscevano tutti.