Archivio mensile:luglio 2011

La magia del Ragazzo Che è Sopravvissuto

“Non provare pietà per i morti, Harry. Prova pietà per i vivi e soprattutto per coloro che vivono senza amore.”

Albus Silente, Harry Potter e i doni della morte

La prima volta che sono andata a Londra, ho cercato per ore il binario 9 e ¾ alla stazione di King’s Cross. Avevo letto su una di quelle guide che ti svelano le particolarità e le cose strane di una città che in onore di Harry Potter la stazione, in corrispondenza del binario 9, aveva fatto costruire un carrello incastonato nella colonna con la quale gli studenti della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts avevano accesso al fantomatico binario 9 e ¾.  Non l’ho trovata e a questo punto non so nemmeno se esita veramente. Ma cosa cercavo? La solita occasione da turista di scattare una foto e mostrarla al mio ritorno? No, cercavo un accesso, la possibilità di entrare davvero in contatto con il meraviglioso mondo creato da J. K. Rowling, perchè i libri ormai non mi bastavano più. Avevo davvero bisogno di  una prova tangibile della sua esistenza perchè il mondo di Harry Potter ti rapisce e ti fagocita a tal punto che chi vi entra non è più in grado poi di uscirne, di distinguere la realtà dall’immaginazione, di riconoscere ciò che davvero è successo da ciò che invece è solo frutto dell’incredibile penna della sua creatrice. Forse questo è dovuto anche al fatto che nei sette libri l’autrice tocca e richiama continuamente fatti storici accaduti realmente, vicende che si ripetono e situazioni tipiche che quasi tutti i paesi del mondo hanno dovuto affrontare almeno una volta. E’ per questo che insisto nel dire che la saga del maghetto più famoso dell’universo non è solo un libro per ragazzi ma che andrebbe letto da tutti, a tutte le età. Non sono solo i bambini ad avere bisogno di un po’ di magia, per vivere. La mia dose di magia l’ho avuta l’altra sera, unita ad un’abbondante dose di tristezza, andando a vedere l’ultimo, meraviglioso capitolo della saga, Harry Potter e i doni della morte, parte 2 – Tutto finisce.

Eh sì, è finito e finendo ha portato con sè tutti i miei sogni, i miei piccoli momenti durante i quali non pensavo a nulla, la vita reale lasciava il posto a Diagon Alley e a tutto ciò che di più magico sia mai stato creato. L’ultimo episodio comunque della saga va visto perchè credo sia una vera e propria antologia, il regista David Yates evidentemente ha voluto inserire tutti i momenti più belli, i personaggi storici, le situazioni mitiche che in tutti questi anni Harry ci ha fatto vivere. E allora ecco che il ritorno ad Hogwarts diventa occasione per ritrovare i compagni di avventura più fedeli, per rivivere le avventure nella camera dei segreti, nella stanza delle necessità o nello studio di Silente. Il momento che ha preceduto lo scontro con Voldemort nella foresta invece, è diventato per Harry una riunione familiare con tanto di apparizione del padrino Sirius Black, il mio personaggio preferito (oltre che uno splendido Gary Oldman), uno dei momenti più commoventi forse di tutto il film, dove vengono per un attimo fatte anche riflessioni cosmiche sulla morte e su ciò che essa rappresenta (ecco perchè mi ostino a dire che non è solo un libro per ragazzi). Commovente ma ancor più struggente l’epilogo di Severus Piton, fino all’ultimo ambiguo nella sua posizione ma tenero e coraggioso, forse il personaggio meglio costruito di tutta la storia e forse un autentico concentrato di lealtà: verso Silente e quindi verso Hogwarts e il mondo magico in generale, verso l’amore che ha provato per tutta la vita nei confronti della madre di Harry, e quindi verso Harry, che ha sempre difeso e che gli ha sempre permesso di ricordare Lily, attraverso i suoi occhi. Un richiamo alla storia anche la vicenda della famiglia Malfoy che rappresentano in questo caso i vigliacchi, che prima giurano fedeltà al malvagio per poi scappare durante la battaglia. Se ci pensate, non ricorda vagamente la storia italiana durante la seconda guerra mondiale e la fuga dei nostri reali? Nonostante ciò, devo dire che il personaggio di Draco è splendido, in questa veste ultra british post-punk, bellissimo e  tormentato dalla sua eterna rivalità con Harry e dalla sua insicurezza, consapevole di non essere all’altezza del Prescelto.

Il film nel complesso è dinamico, appassionante, ben costruito e ben musicato (davvero indimenticabile la colonna sonora di Alexander Desplat, che avevo già notato per le sue tonalità toccanti in New Moon), in questa altalenanza di battaglie e momenti di tenerezza, commovente ma sempre condito da un tocco di allegria e freschezza adolescenziale, incarnata soprattutto dalla tanto agognata dichiarazione d’amore tra Ron ed Hermione, innamorati sin dal primo incontro. Sono esempi di integrità, Harry e i suoi amici, di maturità e di incredibile audacia, di un coraggio mai visto e di valori. Il finale che ho tanto atteso si è concratizzato nella scena finale, alla stazione di King’s Cross, dove Harry, Ron, Hermione e Ginny accompagnano i rispettivi figli all’espresso per Hogwarts, per iniziare la loro avventura da maghi e streghe. Anche l’amore, quindi è trattato in questi libri: la loro serietà è dimostrata anche nella scelta di vivere per sempre con la compagna o il compagno conosciuto a scuola e che ha quindi rappresentato da subito il vero amore. Anche in questo, i maghi dimostrano una maturità che noi babbani, purtroppo, sembriamo aver dimenticato.

Uomini che leggono Fabio Volo

L’amore non guarda con gli occhi ma con la mente e perciò l’alato Cupìdo viene dipinto bendato.
Pazzo, amante, poeta: tutti e tre sono composti sol di fantasia.

Sogno di una notte di mezza estate, (atto V, scena I)

L’estate o la ami o la odi.

C’è chi la odia per il caldo, per le zanzare e perchè detesta dover mettere in mostra le proprie nudità. Ad alcuni mette tristezza, perchè le città si svuotano, vittime del grande esodo che continua ad ammaliare gli italiani, perchè le foglie degli alberi si seccano, perchè “passato Ferragosto, in un attimo è Natale”. Stendendo un velo pietoso sulle mie di nudità e combattendo le zanzare a colpi di Off nè punti nè unti, io odio l’estate perchè è la stagione degli abbandoni degli animali e perchè per il caldo siamo costretti a tenere le finestre aperte e quindi a subire la vita quotidiana del vicinato fatta di musica da balera e conversazioni a tasso d’interesse zero, ma contemporaneamente la amo perchè è sempre stata piena di sorprese. Non so per quale strano motivo, forse solo Shakespeare lo sapeva, ma se deve succedere qualcosa, bella o brutta che sia, il 90 per cento delle volte accade d’estate. La gente impazzisce con il caldo: quando ero ragazzina, ricordo che aspettavo con ansia giugno perchè sapevo che avrebbe dato inizio al circo dell’amore. Coppie che scoppiano, altre improbabili che si formano, gossip succulenti e shock anafilattico-sentimentali sono sempre stati i protagonisti della mia torrida adolescenza bolognese (nonostante Bologna sia una di quelle città che in agosto si trasforma in una via di mezzo tra Dodge City, nel Far West e Saigon, per l’umidità). Ma la città che senza ombra di dubbio di umidità ne sa qualcosa è Ravenna, dove vivo ora, che d’estate letteralmente si traveste in un’eccentrica diva très chic dai mille  intellettualissimi impegni, tra teatro, danza e musica di un certo livello. L’osservatorio antropologico di gran lunga più interessante però, rimane il mare.

La summer of love dei lidi ravennati non è esattamente come quella di San Francisco nel 1968, ma è una generazione che ama la spiaggia, lo dimostra il fatto che sulla sabbia a Ravenna avviene qualsiasi cosa: si mangia, si beve, si balla, si canta, si fa musica, si presentano libri, si organizzano sfilate, si cucina, si proiettano film, si leggono i tarocchi, ma soprattutto, si gioca a racchettoni. Immagino che dopo aver riconosciuto il beach volley come disciplina olimpica, il prossimo turno sarà quello dei racchettoni. Tutti giocano a racchettoni, non c’è età nè sesso, non c’è classe sociale nè prestanza fisica che discrimini gli appassionati di questa attività. Ormai, Marina di Ravenna non è più una spiaggia, ma è un gigantesco e unico campo di racchettoni, una specie di Acheronte il cui attraversamento è minaccioso e pieno di insidie, ma necessario se per caso stai morendo di sete e vuoi raggiungere il bar o se devi urgentemente andare alla toilette. Ora, non so cosa spinga le donne a compiere un tale sforzo sotto una temperatura che si aggira sui quaranta gradi all’ombra, ma non ho nessun dubbio sul motivo che spinge gli uomini a farlo. Nel mondo animale si usa ancora chiamarla “danza del corteggiamento”, nel mondo balneare rappresenta il modo migliore per mettere in mostra i muscoli, per dare sfoggio dell’abbronzatura, per emettere suoni gutturali decisamente virili e perchè l’effetto sudato dopo una partita a racchettoni fa molto California Dream Men. Ciò non è altro quindi che l’ennesima dimostrazione del fatto che l’uomo non fa nulla per caso, tutto è sempre e comunque a scopo seduttivo. Ma c’è sempre l’eccezione che conferma la regola…

Personalmente, vado in spiaggia per leggere, trovo che sia l’ambiente giusto, nel senso, visto che andare in spiaggia significa trascorrere una giornata all’insegna della nullafacenza, mi sento giustificata a poltrire con un buon libro in mano. Evidentemente non sono l’unica visto che qualche giorno fa ho notato un ragazzo che anzichè dimenarsi con un racchettone in mano preferiva crogiolarsi al sole con…Fabio Volo.

Fabio Volo?!

Noi librai o ex librai come nel mio caso li chiamiamo libri da spiaggia, perchè si suppone che sotto l’ombrellone non si sia particolarmente predisposti a leggere Schopenhauer. Fabio Volo è uno di quegli autori da spiaggia che, per carità, non vuol dire essere un autore di serie B, ma semplicemente significa rientrare nella categoria della narrativa più “leggera”. E’ un fantastico deejay, lo riconosco, è un ottimo presentatore televisivo e non se la cava neanche male come attore. Ho letto due dei suoi libri ma entrambi mi hanno infastidita per questo continuo atteggiarsi a bambinone che non vuole crescere ma che ad un certo punto si innamora perdutamente di una ragazza che gli fa mettere la testa a posto. Ma non è tremendamente scontato questo ruolo? E chi legge questi libri, significa che è scontato anche lui stesso, oppure che cerca conferme, oppure che invece se ne distacca perchè considera quel periodo della sua vita ormai andato?

Quale sia la motivazione non lo so, ma una cosa è certa: scontato o imprevedibile, un uomo che legge in spiaggia è sicuramente più interessante che mille scimmioni urlatori che fanno rimbalzare una pallina.

Vedete un po’ voi…

A piedi nudi sul palco. Al teatro Alighieri, Mozart viene dal Continente Nero

Para ponzi ponzi po.

Se me l’avessero detto non ci avrei creduto. Ma il Ravenna Festival riesce davvero a stupirmi e conquistarmi, anno dopo anno, con la sua tendenza all’innovazione e alla ricerca artistica. Il maestro Mozart avrebbe sicuramente gradito questa rivisitazione del suo Flauto Magico, Impempe Yomlingo, versione afrikaans realizzata dal pluripremiato regista Mark Dornford-May, un esplosione di colori, voci, suoni etno-afro-poco chic ma molto efficaci. Povera Ravenna, un po’ troppo scioccante direi per il pubblico very important person dell’Alighieri, ma ci voleva, che diamine, uno scossone di contaminazioni e suggestioni per svecchiare un  po’ quell’atmosfera un po’ troppo araldica e impolverata del Ravenna Festival. Molti avranno pensato che gli artisti coinvolti in questa rappresentazione siano gli stessi che vendono braccialetti e accendini nelle spiagge di Punta Marina; immagino già i commenti: “di giorno vendono cianfrusaglie in spiaggia e di sera ballano e cantano”. Signori miei, non credo siano proprio gli stessi, ma vi posso assicurare che in ogni vu cumprà che incontriamo sotto l’ombrellone e che liquidiamo di solito in un nanosecondo c’è molto più talento e intelligenza che in tutta l’Italia messa assieme.

Aveva ragione mio babbo quando diceva: ” i cioccolatini hanno una marcia in più”. Mi hanno lasciata davvero senza parole, con la loro innata musicalità, il loro senso del ritmo, così spontaneo, così allegro. Si chiama talento naturale e non si impara in nessuna accademia di danza, canto, arti varie: noi italiani, nemmeno dopo secoli e secoli di studio, riusciremo mai a raggiungere un tale livello di coralità. A parte il fatto che la maggior parte degli artisti della compagnia di Isango Ensemble è sicuramente sotto la quarantina; che tutti sanno fare tutto, cioè non esiste un musicista che sa solo suonare, ma tutti ballano, cantano e suonano divinamente in maniera intercambiabile; che il novanta per cento di loro supera abbondantemente i centocinquanta chili ma si muove con una leggerezza ed una agilità che io non ho nemmeno nel fare una rampa di scale (il mio personaggio preferito è un mix di Barry White e Quincy Jones che si muove come se avesse lo stesso peso specifico di quelle patatine insapore che ti danno al ristorante cinese come antipasto).

La scena è spoglia, sembra fatta con materiali di recupero ed è perfettamente in linea con quella che può essere la visione globale di un Paese dell’Africa nera; l’orchestra è sostituita da una serie di marimbe suonate, come vi dicevo, da tutti, a seconda di chi è libero in quel momento, ma dirette in maniera magistrale dal vulcanico Mandisi Dyantyis, bello come Ben Harper, abbastanza folle di creatività quanto lo era Jean Michel Basquiat, incredibile anche nel suonare una tromba jazz che nello spettacolo sostituisce il delicato flauto. La genialità della composizione è l’alternanza di lirica mozartiana a balli tipici africani, come se le partiture di Mozart si adattassero perfettamente alle loro coreografie, in una fusion di contaminazioni e suggestioni tanto da far venire il mal d’Africa rimanendo seduti comodamente nel proprio posto a teatro.

Tre i momenti indimenticabili: il primo, l’arrivo degli spiriti, una triade di Jackie Kennedy in rosa confetto versione Cape Town, deliziose quanto Whoopi Goldberg nei panni di Rita Miller in Ghost; il secondo, quando gli spiriti si trasformano in tre angelucci in tre modelli di taglie diverse, small, medium and large, che ricordano tantissimo Aretha Franklin e annesso coro mentre canta Think in The Blues Brothers; il terzo, quasi alla fine dello spettacolo, quando si presentano tre dei Jacksons Five, o almeno questo sembravano, con tanto di jeans a zampa e parrucche iper gonfie. In tutto questo, l’esecuzione viene svolta senza scarpe, ovvero tutti gli artisti sono scalzi, direttore d’orchestra compreso. Il risultato comunque è davvero fuori da ogni catalogazione e credo che questa sia davvero l’interpretazione che forse maggiormente rispecchia quello che era lo spirito di Mozart: ironico, controcorrente e decisamente divertente. Davvero, basta con le versioni blasonate, è ora di tirar fuori la vera anima dei compositori, spogliarli di quella sacralità che per secoli li ha portati sulla scena. Mozart, se avesse potuto scegliere, avrebbe sicuramente optato per questa versione, che meglio di tutte le altre restituisce l’idea di genio e sregolatezza che gli appartieneva.

Mancava solo Shakira.